Paolo Borsellino: un sogno d’amore che non potrà mai morire

Mini_SalvatoreBorsellino1«Le gambe purtroppo non mi portano più dove il mio cuore vorrebbe andare: tra tutti voi che avete una frazione di vita maggiore della mia, affinché possiate ricordare…».

Così ha esordito Salvatore Borsellino lo scorso 28 aprile presso la sala Giovanni Reale di Palazzo Verbania, durante un incontro organizzato dall’associazione “Su la Testa – APS”, con il patrocinio del Comune di Luino e la collaborazione dell’Uciim (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Dirigenti Educatori Formatori) “Paolo Borsellino e Rocco Chinnici”, dell’associazione Fazzoletti Bianchi, dell’Associazione Nazionale Carabinieri e di altre realtà locali.

E chi si aspettava una semplice conferenza commemorativa per onorare la memoria di una delle figure più rappresentative della lotta contro la mafia, quel Paolo Borsellino che, insieme a Giovanni Falcone, Rocco Chinnici, Carlo Alberto Dalla Chiesa e molti altri sacrificò la sua vita al servizio dello Stato, si sbagliava.

Perché le parole di suo fratello Salvatore hanno avuto l’effetto di un fiume in piena, che rompendo gli argini delle convenzioni si è trasformato in un urlo di dolore, di rabbia, ma anche di speranza nel rivivere quegli ultimi giorni (esattamente 57, quelli che separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio) prima della morte di Paolo.

Frammenti di vita raccontati da questa parte della barricata, quella della famiglia, di coloro che ancora oggi non sanno darsi pace per non averlo potuto proteggere da quell’orrore pianificato da Cosa Nostra. «Non era un eroe ma un servitore dello Stato che fino all’ultimo aveva deciso di continuare a fare il suo dovere. Falcone era suo fratello, non io, che lo sono solo anagraficamente, perché entrambi avevano lo stesso sogno»

E non solo: nella carneficina di quel 19 luglio 1992 in via D’Amelio se ne sono andati anche cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina. «Furono fatti a pezzi: c’erano solo brandelli mescolati insieme, nelle bare e nella buca scavata dall’esplosione. Mia madre volle che fosse piantato un ulivo fatto arrivare apposta da Betlemme, che allora era ancora un luogo di pace, come simbolo di speranza». Ecco perché Salvatore Borsellino non va mai al cimitero di Palermo: là si trovano soltanto i resti dei corpi, mentre invece in quell’albero non scorre la linfa, bensì il sangue di quei ragazzi. «Quando appoggio la mano su quell’albero è come se lo appoggiassi sul braccio di mio fratello».

Passano soltanto pochi attimi, tra quello squillo di campanello e la deflagrazione, e la mamma di Paolo, dopo la morte di quel figlio vorrebbe morire. Invece sopravviverà per altri interminabili anni guardando i ragazzi passare e appendere oggetti ai rami di quell’ulivo: perfino sigarette, come se Polo fosse ancora vivo. Già, è una condanna alla vita, come quella del collaboratore che si salverà dall’attentato perché in quel momento sta facendo manovra, mentre Paolo «si accendeva una sigaretta senza sapere che stava guardando il cielo di Sicilia per l’ultima volta».

E ai ricordi intimi e segreti, narrati quasi come una litania rivolta più a se stesso che al pubblico, Salvatore Borsellino alterna più di un “J’accuse”: una violenta requisitoria non solo contro la mafia, ma anche contro lo Stato, colpevole di aver lasciato solo suo fratello. Il nocciolo della questione resta la famosa “agenda rossa”, che, a distanza di tanti anni non è stata ancora trovata: «la scatola nera di quella strage, con un’infinità di depistaggi che hanno allontanato il decorso della verità, ma anche simbolo di lotta».

E all’invettiva contro i corrotti come Vito Ciancimino si aggiunge l’amara constatazione che anche la Chiesa dovrà aspettare l’arrivo di un Papa polacco per esprimere la sua condanna nei confronti della mafia, quando, il 9 maggio 1993, Giovanni Paolo II pronuncia una scomunica ai mafiosi durante la sua visita alla Valle dei Templi. Del resto, lo Stato stesso era la mafia, soprattutto quando fu permesso il famoso “Sacco di Palermo” che stravolse l’architettura della città tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60. Le ville liberty tipiche della città furono distrutte per ottenere licenze edilizie che avrebbero dato il via ad una delle più grandi speculazioni edilizie italiane.

A mitigare la rabbia di Salvatore, si alternano i ricordi degli insegnamenti materni verso il rispetto, il senso dello Stato, l’amore per la lettura, in un periodo in cui certi autori avevano una circolazione limitata, per esempio Leonardo Sciascia. «Il giorno dopo, nostra mamma, mentre aveva ancora nelle orecchie quel boato, chiamò me e mia sorella e ci disse che da quel momento avremmo dovuto andare dappertutto per non far morire il sogno di Paolo: “finché qualcuno parlerà di lui, egli non sarà morto”»

Sì, la vita di Paolo è così intensamente legata all’amore che non riusciranno ad inventare una bomba in grado di uccidere questo sentimento: «L’ho promesso a mia madre, ma sono convinto che sopravviverebbe anche senza di me». Rivela Salvatore con un’impercettibile incrinatura della voce, ricordando l’infanzia in un quartiere dove si giocava e si andava a “rubare i cioccolatini”, con l’odore della farmacia del padre Diego nelle narici. Quello è ancora un quartiere povero dove un’intera famiglia vive in una sola stanza e la luce entra dall’unica porta.

Per questo motivo i ragazzi spesso cadono nella spirale della criminalità organizzata, i cattivi maestri si trovano facilmente per strada e le forze dell’ordine vengono percepite come nemici, perché controllano gli arresti domiciliari dei padri. Ma Paolo l’amava, la sua città: “Palermo non mi piaceva: come può piacere una città dove ancora scorre il sangue? Ma proprio per questo imparai ad amarla, per cercare di cambiarla”.

Dopo la sua morte la gente incomincia a ribellarsi, soprattutto i giovani: Palermo si riempie di lenzuoli e Salvatore pensa che forse Dio aveva voluto la morte di Paolo affinché il “nostro disgraziato Paese potesse cambiare”. Ma dopo cinque anni sceglie il silenzio, perché si rende conto che l’indifferenza sta prendendo il sopravvento. «Tacqui perché capivo di non avere il diritto di continuare».

Perché uno Stato “deviato” non aveva saputo proteggere Paolo e il compito degli assassini fu facilitato dalla mancanza di un banale divieto di sosta; Il telefono dei genitori intercettato dai criminali; l’auto posteggiata sotto casa sostituita… «Tutti sapevano che sarebbe toccato a lui: Mio fratello fu lasciato lì ad aspettare l’arrivo della morte».

Paolo come un agnello sacrificale, riceve una telefonata dal suo capo, per informarlo che l’auto di servizio era già parcheggiata davanti al portone di via d’Amelio. Egli è consapevole che il carico di tritolo che doveva ucciderlo era già arrivato, tanto che, sapendo che cosa l’aspettava. Alle 5 del mattino di quel 19 luglio 1992, dodici ore prima dell’attentato, Paolo scrive una “lettera screanzata” di rimprovero, rimasta incompiuta, indirizzata agli studenti di un liceo che non era riuscito ad incontrare a causa di un disguido e non dalla volontà di trincerarsi dietro un compiacente centralino telefonico. Nonostante già sappia che cosa l’aspetta, in quella lettera Paolo scrive anche parole piene di speranza, benché la città si sia di nuovo “barbaramente insanguinata”.

Sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni.  Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta… Il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

E torniamo alla famosa Agenda Rossa: una fotografia mostra un capitano dei Carabinieri che si allontana con la borsa di Paole. Forsa viene rimessa nell’auto in fiamme nella speranza che l’incendio faccia perdere anche il suo ricordo e quello del suo contenuto; tuttavia, non fu mai istruito un processo per indagare specificatamente; il capitano fu mandato a processo, ma in udienza preliminare fu assolto. Si trattò di un depistaggio di Stato? Probabilmente quell’agenda fu sottratta dai Servizi e giace tuttora nel sotterraneo di qualche palazzo romano. Servizi deviati presenti, chissà perché, ogni volta che si parla di una strage, a partire dall’eccidio di Portello della ginestra del lontano 1947 compiuto dalla banda di Salvatore Giuliano.

È quasi impossibile tentare di governare questo fiume inarrestabile e così doloroso di ricordi, per incastrare i tasselli degli ultimi anni di storia del nostro Paese da consegnare alle future generazioni, per mitigare il senso di colpa per non aver potuto impedire che il destino di Paolo Borsellino si compisse e per imparare a convivere con la rabbia, combattendo contro il muro di gomma della reticenza, desiderando urlare al mondo intero che non si potrà mai scrivere la parola “Fine”.

Alla ricerca di una pace interiore Salvatore intraprese da solo il Cammino di Santiago e la Via Francigena, sicuro di avere accanto a sé suo fratello; ora, finalmente, la chiara percezione che una via d’uscita forse c’è, per evitare che la gente continui a voltare la testa dall’altra parte, lasciando che degli eroi si siano sacrificati per gli indifferenti che non hanno saputo fare la loro parte: raccogliere il testimone.

Allora, mai come ora appare realizzabile la metafora utilizzata per regalare un potente messaggio di speranza a tutti i presenti, soprattutto ai ragazzi intervenuti all’evento: se una sola persona provasse a svuotare il mare con un cucchiaino non ce la farebbe mai, ma se invece tutti insieme unissimo le nostre forze e con un cucchiaino a testa iniziassimo ad aiutare quella singola persona, potremmo riuscirci.

 

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Neve di febbraio

WebVeddoSnow3

Cadeva
senza fretta posandosi quieta
sui primi germogli del tiglio
sognando il profumo dei fiori
e l’estate, con la brezza
che scende la sera dalla valle
a solleticar le gote.

S’imbiancava
il paese sotto lo sguardo
incredulo dei tetti
lasciandosi travolgere da
improvvisi fremiti
prima di concedersi al sonno,
intessuto del disperato
anelito di un sorriso.

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Il silenzio siderale del cielo

Webfromhome2

Non chiedere
all’angelo della morte
d’incenerirti il cuore,
scruta le sue pupille scavate
dall’avidità del sangue
e dissétati della sua pena.

Sentirai scorrere linfa nelle vene
a lenire il dolore che brucia
nello squarcio aperto
da quella lancia infuocata
che a tradimento ti ha colpito
al fianco.

Nulla sarà come prima,
ma resta l’ansia dell’attesa,
che si alimenta di pochi fotogrammi
accartocciati
come foglie d’autunno
e poi sarà di nuovo respiro,
nel silenzio siderale del cielo.

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L’ora desolata della resa

MiniScarpata

È questa una notte di tormenta,
che accompagna
nella sua diabolica danza
il turbinìo di una neve
sottile e ghiacciata,
fragile filigrana fra i rami
scheletrici delle betulle
sulla scarpata della ferrovia.

S’amplifica
l’ululato del vento,
che morde le onde
del lago impazzito
di paura
nell’ora desolata della resa,
quando più nulla vale
di fronte allo sgomento
della morte.

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Alla foce dellaTresa

minifocetresa1

Al delta del fiume sono incastonate
le gemme dell’ultima primavera,
interminabile e lenta
nella sua disperata malinconia.

Era un brulicare di vita
tra la schiusa delle uova
e il pigolio implume della tua voce
mimetizzata fra le altre,
ignare del tempo e della sorte,
ancorate al saliscendi della marea
nell’eco dei richiami
che la sabbia più non poteva
trattenere.

Imprigionato nella ghiaia
resta il ricordo del solco
scavato sulla riva,
tra le onde incalzanti e brevi
della corrente,
che affrettano al volo,
guidato soltanto dal ritmo
ossessivo
delle stagioni e delle lune.

Migrare è come morire:
tu non tornerai al nido,
e nemmeno quelle piume.

Resteranno soltanto
pochi frammenti di gioia
rosi dalla nostalgia,
sepolti nella ghiaia sottile
che dalla foce entra nel lago
e lì s’annega.

Il fiume Tresa che scorre nei pressi di Luino, è un importante crocevia per l’avifauna migratoria, nel suo percorso dalla Scandinavia all’Africa occidentale. Un’isola sabbiosa, che regolarmente compariva nei periodi di magra, alla sua foce, lo scorso anno è stata eliminata dalle autorità per ragioni di sicurezza, anche se numerose specie di uccelli lì trovavano cibo  e riposo prima di riprendere il viaggio migratorio. Fino all’ultimo ho spinto Gianni fin laggiù, in cerca di tranquillità e di serenità, nel tentativo di sfuggire alla Morte…

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El Mole Rahamim

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Sul leggio delle giornate silenziose
e senza Verbo
giace lo spartito della rassegnazione
alla volontà di Dio,
dopo che l’ultima nota
è volata in cielo con la caligine dei camini.

S’incrina, la voce,
incapace d’intonare la litania del perdono,
lasciando il canto fermo alla polvere del tempo
perché si mescoli ai grumi del sangue
e ne conservi la memoria,
da consegnare fra le mani della misericordia.

La preghiera “El Mole Rachamim”, “Signore della misericordia”, fu scritta per commemorare gli stermini avvenuti già nell’anno Mille al tempo delle Crociate, e susseguitisi per tutto il millennio fino ad Auschwitz. È una preghiera che commemora i morti di morte violenta, la cui vita è stata troncata ingiustamente, prematuramente. Questo canto è diventato, dopo lo sterminio nazista, l’emblema di quella tragica esperienza. A perenne memoria, ricorda i nomi di tre lager tristemente celebri, Auschwitz, Mauthausen e Treblinka.

Jordi Savall nel suo:Jérusalem. La ville des deux Paix: la paix céleste et la paix terrestre, incluse una registrazione storica del 1950 in cui il cantore Shlomo Katz, un ebreo di origine rumena sopravvissuto alla prigionia nei campi di concentramento, esegue questo canto funebre.

Nato nel 1919 nel villaggio di Nagyörság in Ungheria, noto allora con nome tedesco di Grosswardein, il “cantor” Shalom Katz fu catturato e deportato nel 1942. Nel lager, Shalom Katz era uno dei 1600 ebrei la cui esecuzione era stata programmata. Ebbe il permesso di cantare El Male Ra’hamim mentre ogni prigioniero scavava la propria tomba. Il comandante nazista, impressionato dalla sua voce, lo separò dagli altri in modo che potesse cantare per gli ufficiali. Il giorno dopo, Shalom Katz riuscì a fuggire dal lager. Fu il solo superstite di quei 1600 ebrei.

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L’antifonale ambrosiano-monastico della Badia di Ganna

MonasteriFruttuariensiE’ stato recentemente pubblicato un libro nella collana “Quaderni di Storia del territorio varesino”, edito da Pietro Macchione (Va) dedicato ai quattro monasteri Fruttuariensi della Valle del Seprio, fra i quali la Badia di S. Gemolo, a Ganna, presso la quale è stato ritrovato un antico Antifonale (manoscritto liturgico di rito ambrosiano) risalente ad un periodo compreso fra la seconda metà del XV secole e la prima metà del XVI secolo. Il prezioso testo, riccamente illustrato, riproduce anche le foto a tutta pagina dell’intero spartito, la notazione, i testi in latino e la loro traduzione, nonché l’analisi e le note sulle scelte interpretative che il gruppo vocale “Antiqua Laus” ha adottato nella registrazione di un pregevole  CD allegato al volume.

Le tracce del CD comprendono:

Ufficio e Messa di S. Giovanni Battista (compresi Salmi e Magnificat)

Messa del Santo Rosario

Brani dell’Ordinario (Gloria Domenicale, Credo e Sanctus XVII)

Antifone mariane

Nel marzo del 2007 io e Gianni abbiamo fotografato così il chiostro della Badia Benedettina di S. Gemolo a Ganna (Va)

[cincopa AcJAYFbyApDz]

In festo S. Joannis Baptiste ad missam – Ingressa: Spiritu Sancto

[cincopa AsAASHLJRNR8]

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Apokalypsis

dalichevalmortAlzasti il calice al verde  cavaliere,
che giungeva col ghigno amaro
tra i denti larghi e le orbite
incavate, senza ciglia.

Tendesti le braccia alla criniera
del suo cavallo per montarlo a pelo,
trafiggendo al crepuscolo la Fede
che agonizzava tra le mie labbra.

Quando l’Agnello aprì il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: «Vieni». Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra.
Giovanni  Apocalisse 6: 7-8

Salvador Dalì: il cavallo della Morte – litografia

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Chimera

minishadowcat3Muso di gatto nerofumo si staglia
al riverbero della parete d’opale
che rilancia il silenzio dei giorni vuoti,
in attesa del volto in penombra
svanito d’ autunno,
nell’alba mite e senza pioggia.

Annusa l’aria
nell’eco di quel respiro
sull’orma della sua voce,
pigolio di pulcino in occhi di bambino,
poi lentamente svanisce,
tornando al miagolio di un sogno infranto
sulla soglia dell’ultima stagione.

A Merlino, che ancora lo vede e gli parla…

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Flying seagulls

WebFoggySeagullVolerai con loro, sorvolando il tuo lago e la nostra casa…

[cincopa AAOAoFr8wwZW]

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