In Svizzera non c’è il mare

Cesare abitava a cinque chilometri dal confine.
Amava da sempre la Svizzera perché era così pulita, ordinata, precisa, civile…
Il ’68 fu l’anno più bello della sua vita.
In tutto il mondo iniziava un’epoca di rivoluzione e di contestazione, invece lui entrava a pieno diritto nel paese dei suoi sogni: appena ventenne, stringendo tra le mani sudate per l’emozione il mitico permesso di lavoro, attraversò il valico sul lago, non per acquistare benzina, dadi di pollo e sigarette extra Monopolio, ma come lavoratore frontaliero, assunto da un’importante società leader nel settore siderurgico!
Così si lasciò alle spalle Piazza Fontana e gli anni di piombo, le lotte di classe e le conquiste sindacali, per vivere di silenzio, lavoro e cieca obbedienza, senza alzare la testa, mai!
Con il passare del tempo Cesare diventò più elvetico degli elvetici.
Ordine maniacale, azioni pianificate e orari programmati: sveglia alle 5,45 e nanna alle 22, pizza, cinema e sesso al sabato sera.
Ogni imprevisto, ogni sorpresa lo turbavano e gli facevano venire il mal di testa.
La sua fedeltà allo stabilimento era totale: la fabbrica era la sua casa, la sua famiglia, il suo unico punto di riferimento e quando, nell’estate del ‘78, il fiume impazzito se la portò via, trascinandosela nel lago, Cesare rinunciò alle ferie per correre in suo aiuto.
Passò giorni e giorni tra il fango, a recuperare, asciugandoli con il phon, disegni e progetti.
Nel cassetto della scrivania trovò perfino più di 1000 punti delle tavolette di cioccolato “Frigor”, che diligentemente accumulava da anni per avere in premio un ciondolino d’oro che avrebbe regalato alla fidanzata, ma ormai anche quelli erano irrimediabilmente perduti…
Cesare si sposò in Italia un sabato di giugno, ma non fece nemmeno il viaggio di nozze, perché la Svizzera non ammetteva simili romantiche scemenze e poi, di lì a poco avrebbe goduto dei suoi quindici giorni di ferie, perciò non si poteva proprio dire che gli venissero negati dei diritti!
La paga, grazie all’inflazione della Lira, incominciò a lievitare, fino a farlo diventare quasi benestante.
Anno dopo anno, ogni ventisette del mese, puntuale come un orologio svizzero, Cesare si fermava al confine, sempre allo stesso distributore di benzina, per cambiare i Franchi.
Si comprò un appartamento, una bella vettura sportiva e riuscì anche a risparmiare un po’, per garantirsi una certa tranquillità durante la vecchiaia.
Mai una malattia, un giorno di permesso, un ritardo, una vacanza al mare: una macchina perfetta, della quale i suoi superiori si mostravano orgogliosi e fieri.
“Guardate come siamo riusciti a plasmare quest’italiano: è felice di lavorare nove ore al giorno, non fa politica… L’abbiamo anche promosso capo reparto, così avrà l’onore di compilare la pagella annuale sulla quale segnalare alla Direzione Generale pregi e difetti dei suoi subalterni…”
Era febbraio.
Cesare da qualche tempo si era fatto crescere la barba, perché, nonostante i suoi 47 anni e qualche capello grigio, aveva mantenuto l’aspetto di un ragazzino e, data la sua posizione di responsabilità, voleva assumere un aspetto più severo.
Da qualche giorno il malcontento serpeggiava, su all’ufficio tecnico, e anche laggiù, nei reparti della produzione, italiani e svizzeri si guardavano più in cagnesco del solito.
C’era aria di crisi economica anche nella dorata Confederazione, la proprietà della ditta era passata ad una holding svizzero-tedesca e correvano voci di un’imminente ristrutturazione, che però non avrebbe toccato i “Quadri”.
Cesare, dunque, poteva stare tranquillo: era cresciuto con la fabbrica, anzi, ne era la memoria storica e aveva perfino imparato ad usare i primi PC, al contrario di tanti suoi colleghi…
Quella mattina, puntuale come sempre, arrivò in ufficio e la vide subito, dimenticata quasi per caso sulla sua scrivania.
Una busta bianca, anonima, che rifiutò di aprire fino a quando arrivò a casa e, con le mani sudate, ne strappò i lembi: “A partire da domani Lei non farà più parte della nostra Grande Famiglia e, fra un mese dalla data di oggi, le sarà interdetto l’ingresso in fabbrica, pena l’intervento della Sicurezza. La ringraziamo della sua collaborazione e le porgiamo cordiali saluti – La Direzione.”
Come sempre, i capi, nella loro infinita saggezza, avevano deciso per il meglio: Cesare non aveva figli, non aveva debiti, sua moglie faceva la maestra, era italiano, costava troppo.
Sì, doveva proprio considerarsi fortunato, perché sarebbe caduto in piedi… Pensò con le lacrime agli occhi.
Non aspettò un mese: il giorno dopo svuotò la scrivania e se ne andò.
Da allora in Svizzera non entrò più, nemmeno per fare benzina.

Questa è la storia vera di Cesare, che a distanza di tanti anni, la notte, sogna ancora la Svizzera, nonostante tutto…

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One Response to In Svizzera non c’è il mare

  1. laura monaco says:

    Cesare e’ un mio amico…sua moglie di piu’!….Gli opportunisti dalle aiouole davanti alle banche….sono STRONZI!

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