Il 30 novembre di ogni anno si tiene la Giornata Mondiale delle “Città per la Vita – contro la pena di morte”, per non dimenticare che ancora oggi ci sono paesi del mondo che mantengono questa forma di punizione. Fin dal 2012 la Città di Luino ha aderito all’iniziativa di sensibilizzazione della cittadinanza come messaggio di speranza illuminando uno dei suoi edifici pubblici. Quest’anno si è scelto Palazzo Verbania, che il 30 novembre scorso (perché proprio il 30 novembre 1786 il Granducato di Toscana abolì la pena di morte) ha ospitato la conferenza promossa dal Comune e dalla Comunità di S. Egidio, con il patrocinio di numerose associazioni e realtà del territorio, tra le quali: Chiesa Evangelica e Metodista di Luino, Comunità Operosa Alto Verbano, Tavolo per la Pace dell’Alto Verbano, Associazione Costruttori di Pace ODV, La Banca del Tempo di Luino, AISU, Associazione “I Sassi di Lago” di Luino.
Al tavolo dei relatori Riccardo Mauri, membro della Comunità di Sant’Egidio, da anni in prima linea nelle iniziative per l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo; il consigliere comunale Paolo Portentoso, presidente della Commissione Servizi alla Comunità e referente del progetto per la Città di Luino. Moderatore Alessandro Franzetti, già Presidente del Consiglio Comunale di Luino.
Che percezione abbiamo, dunque, della morte? «L’abbiamo sentita, empiricamente, più vicina da quando, il 9 agosto 2025, sono stati letti a rotazione i nomi dei 18.500 bambini uccisi nel corso dei 23 mesi di bombardamenti sulla striscia Gaza durante l’iniziativa promossa dal Tavolo per la Pace dell’Alto Verbano con il coordinamento della Comunità Operosa. Cinque minuti di lettura per ognuno dei volontari che, nel pronunciarli, in quel momento sentivano così vicini, con la sensazione di poterli riportare in vita».
Perché tanto rumore per Gaza, rispetto agli altri 60 teatri di guerra nel mondo? Sono luoghi che non conosciamo, eppure come possiamo sentirci empatici con queste tragedie che comprendiamo solo dal punto di vista razionale? Come possiamo capire guerre di religione che mascherano altri interessi, quali quelli legati al petrolio?
Come si percepisce la pena di morte? Ne parlò lo scrittore Dostoevskij, condannato a morte per fucilazione nel 1849 e la cui esecuzione fu sospesa all’ultimo momento, con la pena commutata in lavori forzati: “Sono stato tra le sgrinfie della morte per tre quarti d’ora; perciò, l’ipotesi dei lavori forzati a vita diventa una rinascita”.
E come superare l’idea di vendetta, per esempio di fronte ai femminicidi, o dopo stragi come quelle del 2011 in Norvegia, con la morte di decine di ragazzi? L’autore di quegli attentati fu condannato a “soli” 21 anni di carcere, il massimo previsto dalla legislazione norvegese. «Non so se è corretta questa interpretazione, ma penso di poter dire che fu un segno di civiltà della popolazione, dando la possibilità di una riabilitazione che vada oltre la vendetta di Stato». Ha concluso Portentoso.
In qual modo la Comunità di S. Egidio si è ritrovata a ragionare su ciò che si prova nel “braccio della morte”? Nel 1995 il giovane afroamericano condannato a morte Dominique Green ne diventò amico attraverso un rapporto epistolare. Aveva appena 18 anni quando fu condannato alla pena capitale, accusato di omicidio avvenuto durante una rapina. Dopo aver subito un processo ingiusto, fu detenuto in una prigione del Texas e giustiziato con un’iniezione letale nel 2004.
«Dominique chiedeva solo di inondarlo di lettere, di poter comunicare con il mondo esterno: un mondo di coscienze in grado di bucare il braccio della morte. Dopo di lui si creò una rete di incontri con molti altri testimoni direttamente coinvolti: uomini e donne con un parente condannato a morte, ma anche parenti di vittime di omicidio che chiedevano la grazia per quei condannati. Si trattava di una richiesta di giustizia trasversale: chi avrebbe avuto diritto alla vendetta chiedeva invece la possibilità di un perdono».
Attraverso l’alleanza con altre associazioni nacque l’idea di proporre un appello alle Nazioni Unite per “ottenere una tappa intermedia di riflessione, provando a sperimentare come sarebbe il mondo senza pena capitale”. C’erano già degli esempi virtuosi come quello del Canada, in cui, da quando diventò abolizionista, vide crollare i crimini. Nello stesso modo, negli USA per lungo tempo non furono inflitte pene di morte, con una flessione del tasso di criminalità. Dunque: «Se uno Stato mostra di voler difendere la vita di tutti, lancia un messaggio forte che non è possibile ignorare. Ecco perché è importante sostenere “Città per la vita”, al quale hanno aderito più di 2500 città, con il Colosseo primo monumento illuminato a livello simbolico. Infliggere la pena di morte equivale a contestare un cammino di progresso. Purtroppo, ci siamo abituati alla guerra, alla violenza e all’indifferenza. Un conflitto così vicino a noi come quello in Ucraina non si è mai visto dopo la fine della II guerra mondiale: uscivamo da quella cappa di piombo che ci bloccava, facendoci temere che qualcuno avrebbe potuto spingere un bottone e tutto sarebbe finito, una guerra tanto pulita da cancellarci con un’unica esplosione. Se si abbassa la guardia si fa in fretta a tornare le caverne, dando voce alla nostra voglia di vendetta, prevaricazione, violenza, pensando che giustizia significhi preservare il proprio benessere, la propria tranquillità. In realtà tutti partiamo dalla stessa dimensione di debolezza e non è un caso che chi si trova nel braccio della morte appartenga ad una minoranza; non è un caso che sia condannato a morte chi ha ucciso un bianco, perché il razzismo è anche nei confronti della vittima: se è nero la pena diminuisce».
Ci sentiamo di chiedere una pena esemplare per i crimini più efferati? Ebbene, ricordiamoci che nel mondo si può essere condannati a morte anche per essere sospettati di aver tradito il marito, per aver bestemmiato, per ave elevato le tasse… Siamo vittime di una cultura che ci bombarda incrinando il senso della nostra sicurezza, del nostro diritto di stare bene: ogni volta che qualcuno li minaccia chiediamo una pena severa.
Dire NO alla pena capitale significa non cedere a una cultura di morte, di divisione, di violenza, di forza egoistica. Quando entriamo in un clima di guerra la morte ci sembra più naturale, ma significa cancellare secoli di cultura. Allora, pensando a come evitarla, ci porta a riflettere su come essere più giusti. «La pena di morte è la punta dell’iceberg di una giustizia che può essere migliore rinnovando i cuori; le carceri possono essere luoghi di rinnovamento e di cambiamento; è una sfida per tutti, dalla società civile alle religioni, attraverso il cambiamento di una coscienza e di un modo di pensare: se il peccato è sempre alla tua porta, tu combattilo!».
Questa è la riflessione cristiana della Comunità di S Egidio, il segreto per vivere in questo mondo: la vera empatia è quella che tu senti per gli altri; pensare a che cosa tu puoi fare per loro, perché nemmeno l’uomo peggiore perde il diritto alla vita.
