La sedia vuota attende il miraggio
del tuo riflesso specchiato
nell’immobile simmetria dell’acqua,
in attesa del compiersi di un mistero
che non avrà corpo,
ma solo un’irriducibile voglia d’irridere la morte
offrendole l’illusione delle tue braccia fra le sue,
mentre noi staremo fuggendo lontano,
stringendoci la mano.
Tra il peso che opprime il petto
e il sibilo insistente che all’udito non dà pace,
si consuma nel cuore della notte
il tormento dell’insonnia,
che volge sul fianco il corpo disidratato
stretto nella morsa delle dita screpolate
pronte a serrar le nocche per sbriciolarne
Il cuore.
Sui tornanti del sentiero abbandonato,
là, nell’agonia delle ultime tracce di neve
tra il pietrisco sgretolato dal gelo e il prato,
cresce la smania di arrivare in vetta,
per rivedere l’idea del lago
come lo ricorda la memoria di un’altra stagione,
ormai disciolta nei rigagnoli del dolore.
Macchia lontana, eppure immenso,
scintillante carta stagnola, che s’accartoccia
e poi si distende, sfumando lentamente
nell’abbaglio della commozione,
lasciando al respiro un alito soltanto di sospiro
mentre gli occhi tuoi, stellati,
lacrimano appena, feriti dall’aria tersa e pungente
nel silenzio della montagna,
che solitaria prega.
Dal rifugio Campiglio, in località Pradecolo (Va), quota 1184, si domina il lago Maggiore e, nelle giornate particolarmente limpide, oltre alle prealpi lombarde e ticinesi, lo sguardo arriva fino al massiccio del Monte Rosa.
La memoria dell’acqua
portava con sé il disordine
di questi pensieri sciolti,
disgregati, senza più orizzonte
disegnato perché lo sguardo
potesse cogliere la differenza
tra il nero degli abissi e il volo.
Nel profilo di un cristallo inciso
da un la del diapason
si scolpisce l’armonia
che ricompone il pianto
in silenziosa quiete.
Sarà breve il passaggio
dal mio respiro al nulla.
Il Dr. Masaru Emoto, scienziato e ricercatore giapponese, ha messo a punto una tecnica per esaminare al microscopio e fotografare i cristalli che si formano durante il congelamento di diversi tipi d’acqua.
Esponendo quest’acqua alle vibrazioni della musica, di parole, sia scritte che dette, e anche dei pensieri, ha dimostrato che i cristalli dell’acqua trattata mutano di struttura, inviando dei messaggi.
La bestemmia piegava la bocca in una smorfia
innaturale, le labbra screpolate frementi di livore,
mentre sillabe arrochite scandite senza pudore
colpivano a fondo con l’insulto peggiore.
Eppure la vergogna, celata fra gli abiti dell’ira,
era pronta a cogliere la prima incrinatura
per mostrarsi in tutto il suo umile candore,
con uno scampolo di coscienza pulita
e un bicchiere d’acqua fresca fra le dita.
Lo sento ancora, incollato alla nuca
l’alito caldo dal fiato corto
che mi cingeva il collo
artigliando i miei undici anni
appesi al gancio di un domestico
macello.
È la voce della mamma,
che mi accarezza e mi rimbocca le coperte,
a respinger la paura,
lasciandola morire nel gelo della notte
divorata dal suo stesso branco.
Mi saziavo di te,
avidamente,
addentando il tuo nome
con l’emozione della prima volta,
la pelle umida di rugiada
offerta alla timida aurora
di una primavera sbocciata fra le mura
di un convento antico.
Mi sfiorò appena
Il sentore rancido di quell’ultimo boccone,
prima di essere travolta dai flutti
di una burrasca interminabile
nella quale io soltanto
non trovai legno al quale aggrapparmi
per maledire il giorno in cui
non avevo saputo resistere alla tentazione
di cogliere sassi per mangiare pane.
Durante i 40 giorni di digiuno nel deserto Gesù viene tentato tre volte dal diavolo.
La prima tentazione riguarda il cibo: « Il tentatore allora gli si accostò e gli disse: «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane». » (Matteo 4,3)
Il significato simbolico di queste tentazioni è rappresentato prima di tutto dal deserto, luogo che non avendo in sé vita, avvicina all’esperienza della morte.
In particolare, la prima tentazione riguarda i piaceri carnali, che viene vinta con la virtù della castità.
Poteva essere già primavera, ad incedere
in punta leggera di danza,
fragrante di glicine in fiore
tra i rigagnoli dell’ultima neve
disciolta alla luce del tiepido sole.
Camminare tra la gente e i colori,
stordita da un pugno di coriandoli
e dalle trombette lungo la via,
le guance appena sferzate
da uno sbuffo ancora frizzante
nascosto dietro l’angolo della vetrina
dei cuori in offerta speciale
per le coppie in ritardo con S. Valentino.
Poche manciate di respiro
giunte così, all’improvviso,
sgranocchiano le ultime tracce d’inverno
sui bordi del marciapiede
e il buio della notte sembra così lontano,
con il sibilo costante del vento
che ringhia contro le persiane…
Riconoscevo ogni volta il tuo passo cadenzato
affannato dall’ansia di raggiungermi,
non appena notavo l’impronta varcare la soglia
tra l’ombra e il taglio di luce
che si profilava all’angolo
tra il giardino delle camelie
e l’imbarcadero.
Scostavo lo sguardo incredulo
dalla tendina gialla della cucina
e aprivo la serratura blindata dell’uscio
per lasciarti entrare,
mentre un vago malessere mi sfiorava il polso,
pensando all’incoscienza del tuo insistere
nel voler stringere fra le dita
quel laccio stinto e sfilacciato
annodato al mio collare.
Ti laverò le mani,
con l’acqua fresca di fonte,
la più dolce, quella che sgorga
dalle nostre alture e non conosce fango.
E la faró scorrere
osservandone le gocce
che s’intrecciano alle nostre dita
come ghirlanda di gelsomino
attorno ad un velo di sposa.
Torneranno i giorni dell’Eden,
quando Dio ancora non sapeva
del Male e della sua semenza,
che germogliò
tra i palmi delle nostre mani
e non ci diede scampo.